Il pubblico. Non li chiamo followers. Li chiamo pubblico, persone, famiglia. Nel mio tortuoso percorso professionale in cui, più volte, ho pensato di gettare la spugna, non sono mai stata la cocca di persone importanti, di chi deve decidere del tuo destino, ma ho sempre sentito l’affetto, la stima e la fiducia del pubblico e di chi sa apprezzare una persona anche senza avere un tornaconto personale. A distanza di anni, dieci per la precisione, alcuni ragazzi mi scrivono ancora quanto sono stati bene a “Circuito Scuole”, programma che affrontava temi di attualità assieme a uno specialista del settore avvalendosi di interviste realizzate in mezzo ai giovani. A volte, non me ne vergogno, ho pianto davanti ad alcuni intervistati, non per questo sembrando loro meno professionale, perché non sempre l’impegno corrisponde a gratificazioni. Ecco, penso che il giornalista che si crede sto cavolo non sia più in linea con il momento attuale, ma apprezzo chi, con tanta umiltà, consuma le scarpe, sa ciò di cui parla e sta in mezzo alla gente. Sono convinta che un professionista debba mettersi continuamente in discussione. E questo vale anche per l’ambito culturale dove gli scrittori emergenti dovrebbero essere valorizzati, coinvolti negli eventi e non lasciati ai margini. In caso contrario finiremo a parlare sempre delle solite cose con le stesse persone. In tutto questo marasma, meno male che c’è il pubblico. Al pubblico non puoi imporre nulla; puoi imporre dei nomi, dei volti, ma non convincere ad amarli a comando.