Pensiamo mai all’importanza del nostro corpo? Non come semplice contenitore, ma come veicolo di espressione. Devo dire che negli anni ho imparato a volere bene a quello che prima consideravo un semplice involucro. Da piccola e, in particolare in adolescenza, la mia testa percepiva una netta scissione tra il corpo e l’anima. Dettaglio che si è acuito nel corso del tempo portandomi a utilizzare un vestiario che non mi valorizzava, anzi nascondeva le forme del mio corpo. In realtà, il mio sentirmi ancora bambina mal si conciliava con un corpo abbastanza formoso ed evidente, motivo per cui mi nascondevo in enormi felpone. Mortificavo la mia femminilità. Cosa che, puntualmente, feci anche sul posto di lavoro, ma, in quel caso, forse con maggiore consapevolezza. Volevo che gli altri percepissero la competenza e la professionalità. Era anche una forma di difesa, questo chiudermi. Un breve intro per condurvi per mano verso la mia prossima storia, in cui il corpo diventa mezzo di espressione. Quel corpo di cui a tutte è capitato, almeno una volta nella vita, di vergognarsi o essere insicure.
Lady Gaga aveva risposto per le rime agli attacchi ricevuti sui presunti chili di troppo dopo la bellissima esibizione al Super Bowl, nel 2017, dichiarando: “Sono orgogliosa del mio corpo e dovreste esserlo anche voi del vostro”. Qualche anno prima aveva postato delle foto in biancheria intima, proprio quando le era stata contestata la medesima cosa. Meravigliosa, provocatoria Lady Germanotta: “Mio padre ha aperto un ristorante italiano e mi piace mangiare. Ho messo su 11-12 kg”. Chapéu. Trovo che Gaga sia la nuova regina della performance art e regali sempre esibizioni uniche: con lei voce, corpo e messaggio da veicolare si fondono ed esplodono sul palco.
Torniamo, però, al corpo, che siamo abituate a percepire negativamente, pure per motivi profondamente insiti nella nostra cultura. Eppure non è così. Noi tutti sentiamo con il corpo. Quando nasciamo veniamo appoggiati sul seno di nostra madre ed è attraverso tatto e contatto che il bambino cresce in modo equilibrato. Quando ognuno di noi si avvicina ad un’altra persona avverte a pelle delle sensazioni, positive o negative. Anche quando ci si innamora è il corpo a farla da padrone rilasciando endorfine, gli ormoni della felicità, la cui azione è simile alle sostanze oppiacee. Regalano piacere, aumentano la tolleranza al dolore e aiutano ad affrontare meglio lo stress.
Patita come sono di arte, non potevo fare a meno di innamorarmi di alcune foto in cui mi sono imbattuta, ormai quasi un anno fa, su Facebook. L’autore è Daniele Deriu, sardo (link al sito: http://www.illogico.it/?page_id=2154).
“Le cicatrici -scrive sul suo profilo- servono a ricordarci che siamo dei sopravvissuti. Sono le memorie delle nostre battaglie, le ustioni dei nostri personali inferni. Alcune donne hanno accettato di mostrarle, di lasciare una testimonianza. “Ecco, guardate”, dicono, “dall’inferno si può tornare. Lottare non è vano”.
“Mi chiamo Daniele Deriu e vivo in Sardegna, a Cagliari. Non sopporto le etichette, quindi non mi definirò un fotografo “amatoriale”… per essere precisi, non mi definirò un fotografo. (…) Ho insegnato editoria grafica ed elettronica, le regole di percezione, conosco la tecnica, ma prediligo ancora il cogliere al comporre, anche se spesso è difficile stabilire un confine netto tra le due cose. Ho una “firma cromatica” piuttosto riconoscibile. Faticosamente, perseguo una forma di “pittorialismo” che combina il reale e l’ideale e con cui creo i miei ritratti o le mie figure (sempre femminili). Mi considero un esistenzialista. Qualcuno ha definito “balzana” la mia teoria dello “sguardo percepito”. Nei miei lavori, infatti, non è mai presente lo sguardo del soggetto. Ho esposto in svariate occasioni, ma credo che la prima mostra che meriti una vera menzione, sia la personale del 2012 a Londra dove ho “appeso” alcuni dei miei lavori più “concettuali” e che conteneva anche l’”incipit” del progetto “Scars of life“. E’ certamente da segnalare, non senza un certo orgoglio, a dicembre del 2013 e del 2014, la mia presenza rispettivamente alla seconda e terza edizione del libro di fotografia “Extract from Sensual Photograpy” edito in Francia da SOPHOTO – Society Of Photography Artist. Dal 23 al 25 aprile 2015 alcuni miei lavori sono stati esposti all’Art Expo di New York, mentre si è conclusa a Bangkok nel 2016, la mostra itinerante collettiva internazionale EURASIA 2015, partita da Taranto e che ha toccato diverse tappe italiane (tra cui Milano). La serie “Scars of life“, indubbiamente il mio progetto più conosciuto, è diventato una mostra itinerante che ha fatto parte anche di una interessante iniziativa editoriale (…)”.
Già alla prima frase della sua presentazione sul sito, “non sopporto le etichette”, ho deciso che lo avrei contattato. Le sue foto profumano di verità, di dolore, caduta e rinascita. Il corpo ferito, ma non distrutto, di donne che esprimono una fortissima sensualità, che hanno vissuto e toccato con mano il proprio inferno, eppure sono ancora là a dirci: “Mi sono rialzata. Sono qui, senza maschere”. E io m’innamoro delle persone che sanno mostrarsi così, “nude”, senza sovrastrutture. Senza filtri. A proprio rischio e pericolo. Quelle che bruciano di vita proprio perché ne puoi avvertire le cicatrici sotto le dita. Quelle senza mezze misure, che esplodono di sogni, di aspettative, spesso tradite, ma che non mollano, mai. Mi germogliano dentro queste storie dove la fragilità corrisponde ad umanità. Non dovremmo mai essere giudici degli altri, del loro vissuto, ma artefici di un cambiamento di visuale, promotori della diffusione di empatia. Nati non per piacere ad ogni costo, ma, in primis, per convivere con la nostra essenza. Chi si perde è perduto.
A seguire l’intervista a Daniele, che ringrazio per la disponibilità, e alcune foto.
- Com’è nata l’idea della mostra fotografica “Scars of life”?
Mi piace pensare che il progetto sia nato in risposta alla parola “vergogna”, dopo aver parlato con una giovane donna che, in spiaggia, si copriva perché si vergognava di mostrare le cicatrici delle sue recenti operazioni. Trovavo quel suo sentire profondamente ingiusto e la fotografia era un modo piuttosto efficace per esorcizzarlo.
- Come ha conosciuto le donne che si sono rese disponibili a farsi fotografare?
I primi tempi ho condotto quasi una ricerca “porta-a-porta”. Visitavo gli ospedali, le cliniche e i consultori lasciando il materiale informativo sul progetto. Ho lavorato con le giovani donne che mi hanno contattato.
- Qual è la storia che l’ha colpita di più tra quelle raccontate attraverso le immagini?
Sono tutte storie di “ordinario coraggio”, è impossibile avere preferenze. Ma ho apprezzato, tra le altre, coloro che parlavano di “diventare più forti per aiutare gli altri”. Quando vivi nel dolore spesso non hai un “numero da chiamare”, dicono alcune, e allora diventa forte, fai esperienze, supera le avversità e “diventa tu quel numero da chiamare”. L’ho trovato un concetto di straordinaria umanità. Assai rara di questi tempi.
- Le donne che rappresenta, pur profondamente ferite, nel corpo e nell’anima, trasmettono una sensualità e femminilità molto forte. E’ un risultato che voleva raggiungere o è emerso naturalmente?
E’ sempre stata una delle idee portanti di questo progetto che fin da subito non intendeva mandare messaggi di tipo consolatorio. Le donne, le “dolci guerriere” di questa serie, non sono belle o sensuali “nonostante” i segni ben visibili sulla loro carne… ma, per vie traverse, lo sono proprio grazie a queste “imperfezioni”.
- Il corpo rispecchia, in qualche modo, le emozioni che viviamo: la gioia, così come la sofferenza. Bisogna tornare a dare importanza a questo aspetto, spesso sottovalutato?
Probabilmente non è un luogo comune, spesso le cicatrici più dolorose sono quelle che non si vedono… ma tutte quelle che segnano la pelle finiscono in qualche modo per mappare in modo unico la geografia della nostra esistenza attraverso le tracce di memorie che la carne ha deciso di non cancellare.
Piccole memorie, delle volte, persino nostalgiche e dolci… oppure tracce di istanti talmente traumatici emotivamente da rendere complicato stabilire dove finisce la cicatrice della carne e dove comincia quella dell’animo.
Trovo folle l’idea superficiale di sottovalutare tutto questo.
- Ha più risentito le donne che hanno posato per lei?
Quando il progetto è diventato virale (a distanza di tre anni dalle sessioni fotografiche) mi hanno ricontattato quasi tutte. Erano tra lo spaventato e il divertito, ma è stato davvero bello sentire che stavano bene e che continuavano a lottare.
- Tra le foto realizzate ce n’è una che le è entrata particolarmente nel cuore?
Le amo tutte, indistintamente. Più di ogni cosa, amo le storie che si portano dietro.
- Qual è stata la reazione del pubblico?
Sono sempre stato un autore di nicchia. Poche pubblicazioni e poco pubblico. Poi, improvvisamente, nel 2015, il progetto è diventato “virale” con centinaia di migliaia di condivisioni. Contrariamente alle mie aspettative, la serie è stata bene accolta e il suo messaggio positivo è rimbalzato in tutti i social. Ne sono rimasto piacevolmente sorpreso. Ora è una mostra itinerante molto richiesta.
- Ci sono state, in alcune occasioni, censure a delle immagini perché ritenute troppo forti?
Sì, un paio di lavori del progetto sono stati censurati sui social, e ho ritirato tutta la serie da una rassegna perché tre lavori in particolare sono stati definiti “manifesti horror” e scartati dal curatore. Generalmente non discuto dell’altrui sensibilità, ma in alcune circostanze la sensibilità andrebbe educata.
- Quali sono le prossime mostre che ha in programma?
Mi piace citare quelle che vedranno la luce il prossimo 8 marzo, durante la festa della donna. La serie “Scars of life” sarà presente nel bellissimo Comune di San Salvo in provincia di Chieti in Abruzzo, in una bella iniziativa a cura dell’Assessorato alle Politiche Sociali, mentre l’incipit di “Se l’è cercata” (il nuovo progetto contro la violenza sulle donne) farà il suo esordio in Campania, ad Acerno, grazie al prezioso lavoro dell’associazione LOBA che si occupa di violenza su donne e bambini.
- Ha anche realizzato una campagna di sensibilizzazione in merito alla violenza sulle donne. Come pensa si possa agire in tal senso, visto che i casi, in Italia, sono purtroppo numerosi?
Prendendosi tutto il tempo necessario a risolvere quello che è, evidentemente, un problema culturale. Questo Paese ha perso il senso della “lungimiranza”, quindi occorre lavorare molto sulle nuove generazioni, educarle nel rispetto dell’Altro, prima di tutto, e limare questo viziato senso del possesso, questa “oggettivazione” nei confronti delle donne che è la causa della violenza di genere. Per affrontare, invece, la quotidianità, ben venga qualsiasi iniziativa di sensibilizzazione e di supporto. Le donne, in attesa che le cose cambino, non possono essere lasciate sole ad affrontare i loro aguzzini.
- Le donne sono le protagoniste indiscusse delle sue foto. Cosa significano per lei?
Lo dico sempre. Le donne sono delle guerriere nate. In qualsiasi parte del mondo nascono, si trovano in un ambiente tendenzialmente “ostile”, in una società che le sottovaluta e le sminuisce. Molte di loro passano la maggior parte della vita a dimostrare di non essere semplicemente l’impianto deambulante di un organo “ludico” o riproduttivo. Prendi una donna a caso, avrà certamente una storia di “guerra” da raccontarti.
- Lei è sardo. Quanto la sua terra ha forgiato il suo carattere e il suo lavoro?
Non amo particolarmente i luoghi comuni, ma c’è la possibilità che l’ostinazione, la determinazione e, forse, anche un po’ la poesia tipica del popolo sardo mi abbiano aiutato a portare a termine un progetto dalle difficoltà apparentemente insormontabili.
- Conosce il Friuli Venezia Giulia? Pensa ci siano delle similitudini tra le nostre terre?
Non lo conosco come vorrei. Così, istintivamente, mi verrebbe da rispondere che hanno davvero poco in comune… distanti come sono geograficamente, culturalmente ed economicamente.
Ma linguisticamente hanno degli interessantissimi tratti in comune. In entrambe le realtà regionali esiste, in parallelo alla lingua “nazionale”, una lingua autoctona (il friulano e il sardo). Questo porta le due regioni ad affrontare da sempre lotte intestine per la salvaguardia della lingua e dell’identità.
- Gli artisti hanno spesso una musa da cui traggono ispirazione per la propria arte. E’ capitato anche a lei?
L’empatia è la mia musa. Mi tendo all’ascolto e cerco di trasmettere quello che sento.
- Cos’è per lei l’entusiasmo?
Cristallizzare attimi e riportarli a nuova vita con un piccolo atto di nostalgia.